Il funerale di Sgrobanzo (1)

La chiesa grande suona le campane:
qualcuno è morto, oppure si è sposato,
o forse si è sposato con un morto
- capita spesso, in questi tempi magri,
sposar cadaveri per accasarsi
nel loculo di marmo del consorte,
nel fresco e austero abbraccio della morte.

A Udda Pudriada, bidda liquefatta
nell'abbagliante abbraccio secco e forte
di un sole gonfio, rosso e purulento,
al suono di campane, si raduna
la folla dei parenti e dei curiosi,
dei moribondi e degli avvinazzati,
dei confratelli bianchi, incappucciati,
sospesi sopra i carri martoriati
da segni di frustate e sangue secco,
trainati da lombardi incatenati.

Suonano le campane senza sosta,
suonano la canzone più canzone,
quella che dice a tutti "bona pisca!"
come congedo per l'ultimo viaggio.

Muoiono lenti, ad uno ad uno, i vecchi,
e rimpiangiamo, mesti, i loro tempi,
quando morir da soli era uno sgarro,
un atto di egoismo sanzionato
col sacrificio dell'argenteria,
dei servi, della moglie, della prole.

Muoiono ad uno ad uno, lentamente:
un giorno tocca al vecchio Sbuddacora,
re degli urinatori contro vento,
sdraiarsi tra le bucce di limone,
il giorno dopo al vecchio Marraschina,
golfista d'eccezione e maniscalco
ai tempi del Barone di Muncau.
Oggi è la volta del vecchio Sgrobanzo,
uno su cui non c'è niente da dire.

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