Il funerale di Sgrobanzo (3)

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Un fremito distante si distingue.






Sopra il respiro di cento polmoni,
unisono e concorde al ritmo, sale.





Lento e costante, dal profondo, sale
sul tossicchiare rauco e catarroso
e i risolini sciocchi dei bambini.




Come un rimbombo, un terremoto, sale,
con eco nero d'incavo abissale,
sullo struscìo di corpi circospetto
nascosto al buio, in mezzo ai colonnati.



Con battito invincibile e marziale,
come sfregando sopra un taglio, sale,
sul mormorìo confuso ed indistinto,
coro arrochito, grufolante, sale,
sulla concitazione dell'attesa.


Dal fondo delle cripte gonfie, sale,
stracolme di ossa nude, dove assale
l'inconcepibile passato, sale,
dove più nulla cresce e il vuoto vale
più d'ogni desiderio e vano sforzo:
dal buio dell'inesistenza, sale.

Percuote le navate come un maglio
il denso e grave canto sepolcrale,
sino ad esplodere dietro l'altare,
con urla disperate e disumane,
al ritmico schioccare delle fruste
sulle cappe a brandelli, sanguinanti,
allo scarnificarsi dei ginocchi
sul porfido sconnesso ed affilato,
all'intensificarsi delle grida,
dei colpi sulla testa, sulle mani,
sui corpi intorno, a caso, nella furia
sudata e sanguinante e straripante,
stridente e rantolante e fragorosa
con lingue d'oltremondo ed oltredove,
straniata, devastata, stramazzante
sino ad un roco e vuoto smarrimento,
sino alle lacrime e allo svenimento
ai piedi della salma indifferente,
sinchè ne resta in piedi solo uno,
sul mucchio sparso dei suoi confratelli,
con voce gutturale, posseduta,
a recitare le ultime intenzioni
del grigio e inerte corpo nudo steso
tra bucce di limone e gusci d'uovo,
lattine vuote e buste della spesa,
mucchi di sale sparpagliato ovunque:
«Lasciatemi i coglioni in pace, stronzi».